You are currently browsing the category archive for the ‘Letteratura’ category.

Cos’è una Musa? Perché la scegliamo? Oppure è lei che ci sceglie?

I Fantasmi di pietra

“Roma, questi fantasmi pietrificati
fra i quali io mi aggiro da sempre
e che si disciolgono la notte
e si rovesciano nei miei sogni
come un Tevere
che nel mio sangue s’insala…

ma poi di giorno, eccoli di nuovo diritti
agli angoli delle strade,
sugli sfondi del cielo o fra le nuvole,
i fantasmi di pietra
mi guardano, mi aspettano
che diventi uno di loro”

Giorgio Vigolo

“Fabbricare fabbricare fabbricare
Preferisco il rumore del mare
Che dice fabbricare fare e disfare
Fare e disfare è tutto un lavorare
Ecco quello che so fare”

Dal retro di una cartolina postale scritta il 13 ottobre 1916 da Marina di Pisa e indirizzata a S. A. (Sibilla Aleramo)

“Ciò che si gioca e si perde è sempre la vita. Ciò che conta – per colui che racconta – è saperlo” (Fernando Savater, Borges)

“We’re born mad; then we acquire morality and become stupid and unhappy: then we die” (Mircea Eliade, Diari)

Quando Giorgio Vigolo è morto, avevo compiuto da poco 13 anni e, seppure abitassi a poche decine di metri da lui e mio zio Enrico lo conoscesse bene, non credo ci fossimo mai incontrati. E’ stato solo qualche anno più tardi che ne ho conosciuto il nome: grazie a un suo romanzo giovanile (ma quasi postumo) trovato d’estate su una bancarella ai giardini di Castel Sant’angelo, “La Virgilia”. Storia di un amore fantasmatico oltre il Tempo, ambientato in una Roma ottocentesca ma eterna, dove i veri profili delle cose e delle persone sono celati dietro l’apparente realtà, “La Virgilia” ha avuto su di me un’infuenza enorme – in un certo senso “Il Giardino Elettrico” non ne è altro che un campionamento, una cover che si intreccia con un altro racconto indimenticabile di Vigolo, “Avventura a Campo de Fiori”. Ora sono tornato a vivere in Prati, e spesso passo sotto l’ultima casa di Vigolo a Viale Mazzini. A volte mi sembra di vederlo uscire dal portone, guardarsi intorno alla ricerca di qualcosa, o di qualcuno. Un giorno, quando avremo di nuovo la stessa età, lo avvicinerò, e lo ringrazierò raccontandogli alcuni segreti, anche se forse lui li conosce già.

“Se in un punto potessero incontrarsi (ricordi e prime speranze), la via della vita sarebbe riaperta, ristabilito il respiro sul favoloso regno della prima giovinezza. Sarebbe quello il punto realissimo e ideale: il luogo geometrico dello spirito… Sarà possibile raggiungerlo mai?” (da “Il ricordo perfetto”, 1940)

“La celebrità mi corre dietro e non mi raggiunge mai”

(citato da Leonetta Cecchi Pieraccini in “Vecchie agendine”)

Primo luglio. A Roma i fantasmi sono scivolati all’ombra degli alberi, nei giardini pubblici. Io, dopo tanto tempo, torno in questo giardino. Domani Milanesiana a Bergamo, con Nada.

Racconterò una storia di morte e resurrezione, di travagli e lotte con se stessi. Di letteratura e rock’n’roll. E’ dal rock’n’roll che partirò. Da Robert Johnson, l’uomo che trasformò il blues del Delta nella musica del Diavolo prima di essere ucciso da un marito geloso con del whiskey avvelenato.

E racconterò la storia di due ragazzi italiani che, negli stessi anni in cui Robert Johnson trovava la propria voce e cambiava per sempre la storia della cultura occidentale, sognavano di passare la propria vita scrivendo. E volevano essere come Arturo Bandini, e riuscire a raccontare la vita come fossero in una storia dei Dublinesi. Le loro storie però parlavano di visite alla periferia di Monte Mario, a Roma, o di improvvisi colpi al cuore a Villa Borghese. I due ragazzi si chiamavano Manlio Cancogni e Carlo Cassola. E proprio non riuscendo ad essere nè Bandini nè Joyce divennero se stessi. Trovarono la propria voce.

Vale, S.

“Ora mi par di sapere quando il genere umano se ne andrà, e anch’io con lui. Mi fermo nella pausa di un volo tra un terremoto in Cina e un’emigrazione d’anatre canadesi verso il Golfo del Messico. A metà strada del mio viaggio, nello stadio di Barcellona, assisto alle mie gare preferite, i cento metri e il salto con l’asta. Sono entrambe assai belle, e nel salto viene raggiunto un record mondiale. Mentre l’atleta percorre la pista in mezzo agli applausi, mi dico che il genere umano finirà quando sarà impossibile superare quel primato – e quel giorno verrà per ogni gara. Apro i giornali alle pagine dello sport, e mi raggiunge l’avviso destinato al viaggiatore: il primato del salto con l’asta è a cinque metri e trenta, a cinque e sessanta, oltre i sei metri! Vibro d’ansiosa certezza come l’asticella sfiorata dal saltatore. Ora sono invaso da un sentimento regale. E’ estate, trasmigo sopra i mari, le foreste, i ghiacciai. Il sole penetra tra squarci di nuvole. Sbuco al disopra della bianca ovatta, e intorno a me s’apre l’azzurro interminato. Non sarà facile abbandonare tanta bellezza. Giungono a me preghiere confuse, intersecate da scariche elettriche. A stento riconosco le parole”

Franco Ferrucci, “Il mondo creato”

“Nel momento stesso in cui la filosofia nasce, noi qui l’abbandoniamo. Ma quello che ci premeva di suggerire è che quanto precede la filosofia, il tronco per cui la tradizione usa il nome di “sapienza” e da cui esce questo virgulto preso intristito, è per noi, remotissimi discendenti – secondo una paradossale inversione dei tempi – più vitale della filosofia stessa” (Giorgio Colli, “La nascita della Filosofia”).

Per chi non conosce la visione e scrive sui giornali di critica letteraria. Per chi si domanda in pubblico se abbandonare un editore per ragioni etiche. Per chi gli risponde che il problema non è da porsi in questi termini. Per chi sta zitto.

Come si fanno confuse le linee del destino.

S.